venerdì 19 marzo 2010

L'Italia è un paese moderno

Ho preso un treno nuovo di “pacca”, di quelli a due piani, destinati al traffico dei “pendolari”, dove i writers hanno fatto appena in tempo a dare qualche pennellata. Spinto da un’ elementare necessità ho percorso tutto il treno, di sopra e di sotto, cercando un luogo appartato ma, certamente a causa della mia scarsa capacità di osservazione, non lo ho trovato. Invece, in tutti i vagoni ho ammirato un dispositivo meraviglioso: lettere elettroniche sfilavano continuamente davanti ai miei occhi per darmi un’informazione di importanza essenziale. La scritta diceva insistentemente: “Treno Alta Frequentazione”; le iniziali delle tre parole magiche erano tutte maiuscole. Il significato dell’annunzio, che mi ha accompagnato per tutta la durata del viaggio, mi ha lasciato perplesso e interdetto; non ho capito, difatti, se “alta frequentazione” si riferisse ai passeggeri (nel caso in questione la frequentazione era pressoché nulla perché il treno era vuoto) oppure alla frequenza dei treni di quel tipo. Immagino che la scritta debba servire per altri tipi di annunzi come “Prossima stazione X, fermata di 2 minuti”, oppure “Si annunzia un ritardo di cinque minuti”.
Non avendo trovato la “facility” nel treno, la ho cercata nella stazione dove sono sceso. La piccola costruzione dedicata al “riposo” (come dicono gli Anglosassoni) esiste ancora ma la porta è sprangata. Evidentemente la privatizzazione dei servizi ha ritenuto inutili le relative spese di manutenzione. Ho dovuto attendere di aver raggiunto il mio giardino: qui ho trovato pace e conforto.

Quante osservazioni di questo tipo capita di fare vivendo in questo Paese: ai più non fanno alcuna impressione; in genere si dice: cosa volete, siamo in Italia! Ad alcuni, che sono dotati (purtroppo per loro) di una certa sensibilità e che vorrebbero che il loro Paese fosse degno del suo passato (ormai lontano), provocano, a dir poco, fastidio. Fastidio per gli sprechi, per la trascuratezza. Quante cose si fanno, magari dopo discussioni interminabili, e poi restano inutilizzate per incuria. Quanti progetti di “grandi opere” servono solo ad assicurare potere politico e guadagni a ristretti gruppi, rimanendo per decenni nella fase di progetto o, peggio, vengono realizzate quando le condizioni al contorno sono cambiate e rimangono “cattedrali nel deserto” !

domenica 7 marzo 2010

VANGULI !

Primi di novembre del fausto anno 1943: Taranto, base navale della potente marina italiana, quella che, senza bisogno della spinta guerrafondaia fascista, sotto il governo del pacifista Giolitti era considerata la quinta o sesta marina da guerra del Mondo. Ora, dopo la vergognosa “débacle” nella guerra a fianco di Hitler, testa di sbarco delle composite truppe delle Nazioni Unite che si preparano a risalire, senza alcuna fretta, lo stivale martoriato.

Da pochi giorni è rientrato da Malta un gruppo di siluranti con la bandiera tricolore: è un frutto della “cobelligeranza”. L’ 8 Settembre le nostre navi (quelle che ci sono riuscite) hanno riparato a Malta e vi sono rimaste in stato di blando internamento. Poi, da nemico sconfitto, l’Italia è diventata, appunto, cobelligerante: termine inusitato, coniato non so da chi; sembra comunque molto adatto alla storia e al carattere del nostro Paese, abituato alle situazioni equivoche. Non alleato con pieni diritti e doveri, dunque, ma solo aggregato che fa, sì, la guerra insieme ma entro certi limiti. Per cui, ad esempio, le corazzate restano a Malta o nei Laghi Amari con equipaggi ridotti mentre il naviglio leggero (quello che può servire come scorta convogli), torna in Italia per co-belligerare.

Chi scrive, per sua grande fortuna, era tra quelli che rientravano; adesso si trattava di “cobelligerare” nel modo più dignitoso possibile per dare un sia pur piccolo contributo alla liberazione di quella parte del disgraziato Paese rimasta sotto i neri labari della barbarie. Quindi immediata domanda di reimbarco; questo è avvenuto solo dopo una quindicina di giorni dalla domanda; ho evitato così di vivere le grandi miserie della nostra terra in quel periodo svolgendo anche un compito utile alla liberazione ed alla ricostruzione del Paese.

In attesa del nuovo imbarco sono stato alloggiato in Taranto vecchia presso una famiglia modesta, di cui ricordo con simpatia e gratitudine la correttezza e la civiltà. Come compagno di stanza avevo un altro “aspirante” guardiamarina, sbarcato dalla corazzata gemella della mia; era un giuliano e si chiamava (lo ricordo perché di nome non comune) Lapo. Come me, quindi, tagliato fuori dalla famiglia di cui non conosceva la sorte. Chissà se al ritorno avrà avuto anche lui la grande fortuna di ritrovare i suoi salvi e liberi; forse ha dovuto affrontare le altre difficoltà che ha passato la sua terra.

Tra una visita e l’altra al Comando Marina per chiedere delle nostre domande d’imbarco, passeggiavamo per la città vecchia e nuova, passando sul noto ponte girevole. Soldataglie di tutti i colori si aggiravano per i vicoli e sul lungomare affollando i pochi caffè aperti. Siamo entrati in uno di questi e ci siamo seduti ad un tavolino in un angolo ordinando un “cappuccino” (il latte era di capra ed il caffè di origine molto dubbia).

Il locale, quasi vuoto quando eravamo entrati, si è riempito di colpo all’arrivo di un gruppo di vocianti soldati neo-zelandesi, evidentemente appena sbarcati e in attesa di iniziare la campagna italiana. Non capivamo nulla delle frasi che si scambiavano, un pò per l’ignoranza della lingua inglese ma anche a causa del particolare “slang”. Tutto pareva rimanere tranquillo quando uno degli alti e possenti militari, discendente, probabilmente, da quei passeggeri che “viaggiavano gratis sulle navi di Sua Maestà Britannica” dai suburbi di Londra alle isole dei Maori, si è accorto della nostra presenza e delle nostre uniformi. Queste, anche se non stirate in modo perfetto, erano decenti completi invernali blu: ma le stellette e le corone sui berretti poggiati sul tavolino (eh, sì, c’era ancora il Re sabaudo) ci denunziavano chiaramente come ex nemici. Il bianco signore dell’Oceano Pacifico ha incominciato a fissarci sempre più intensamente; ad un certo punto si è alzato indicandoci con un braccio accusatore e prorompendo in un chiaro e forte “VANGULI! “. Allora altri compagni d’arme si sono uniti al suo sdegno aggiungendo a “vanguli” la domanda “compris?”.

Evidentemente, durante le campagne in Africa settentrionale e in Sicilia le conoscenze linguistiche dei nostri guerrieri si erano estese agli idiomi latini se pur con qualche incertezza.

Non ci sentivamo affatto tranquilli mentre il coro accusatore aumentava di intensità. Lapo ha provato a rispondere in tono educato: “No, non compris” senza ottenere alcun effetto. Subito alla nostra destra c’era una porticina semiaperta; mentre i nostri co-compagni d’arme (come si dice?) iniziavano l’avanzata muniti di bottiglie accuratamente vuotate (ed i cui effetti erano certamente una componente non trascurabile dell’attacco) abbiamo, di colpo, rovesciato il tavolino col piano di marmo e, al riparo di questa trincea improvvisata, siamo scivolati dentro la porticina chiudendocela alle spalle. Poi, coraggiosamente, siamo usciti nel vicolo dietro la casa dopo di aver attraversato la cucina e di esserci scusati per l’irruzione con i frastornati proprietari: non ci risulta che questi abbiano subito danni da parte dei liberatori.

Fin qui l’episodio, del tutto irrilevante nel quadro tragico del tempo. Ma , a distanza di 67 anni, mi risuona ancora all’orecchio l’offesa patita. In questi tempi, poi, di continuo autolesionismo, i “vaffa” (versione nostrana di “vanguli”) si sono moltiplicati. Sono epiteti domestici ma contribuiscono ad alimentare la disistima dell’Italia in tutto il Pianeta.

Perché questa cattiva fama? E’ un discredito permanente o si è verificato solo in determinati periodi della nostra storia? Tutti i popoli hanno avuto tempi più o meno felici; d’altra parte stiamo vivendo un’epoca di decadenza di tutta la cosiddetta civiltà occidentale, di cui certamente facciamo parte essendone stati uno dei due soci fondatori nell’antichità e costruttore quasi esclusivo nel Medioevo e nel Rinascimento.

Quando abbiamo cominciato a ricevere collettivamente ingiurie del tipo “vanguli”? Ho già esaminato questo problema indicando che la fama di doppiezza dell’Italiano (non importa se cittadino della Repubblica Veneta o del Regno di Napoli) risale fino al Rinascimento. Però allora ci veniva riconosciuta quasi da tutti una superiorità creativa e culturale. Poi la creatività è progressivamente diminuita insieme con l’assenza dalla gara per le conquiste coloniali, il ritardo nella nascita dell’industria e l’aumento delle differenze tra regione e regione per quanto riguardava ricchezza, cultura, sviluppo di ogni tipo. Così si è giunti, nel secolo XIX, alla definizione di “Paese dei morti”. Il risveglio, cui è seguita l’unificazione della penisola, è stato molto celebrato ma ogni giorno che passa si rivela sempre più incompleto e pieno di incubi.

sabato 6 marzo 2010

Signori e Signori

Mister, Monsieur, Herr, Señor, Sir, Signore: questi attributi che precedono il cognome di qualunque uomo nelle principali lingue europee dovrebbero avere tutte lo stesso significato che, per i Romani, era “dominus”, cioè uno che dominava, che comandava, cui si doveva rispetto e obbedienza. “Mister” deriva da “Master”, “Monsieur” è uguale a Sir, “Señor” e a “Signore” con l’aggiunta più servile di “Mon” (che per i francesi è indispensabile), “Herr” viene da Hërre o da Hërro che significa sempre “signore”, padrone.

Una volta il titolo spettava solo a quelli che realmente comandavano e che, in tal modo, potevano nettamente distinguersi dal volgo.

Ciò accadeva anche nel nostro Paese che, anzi, era molto in ritardo rispetto agli altri. Ricordo che 140 anni dopo la rivoluzione francese, mia nonna si rivolgeva a chi non era vestito bene apostrofandolo con un “buon uomo”; d’ altra parte mi ha colpito, quando da ragazzo sono andato per la prima volta in Francia, sentir chiamare il cameriere “Monsieur” anziché “Garçon” come mi avevano insegnato.

Mentre negli altri Paesi Europei occidentali e negli USA “Mister” o equivalenti appellativi si generalizzavano a partire dall’inizio dello scorso secolo, in Italia il processo si complicava a causa, forse, del modo piuttosto artificioso con il quale si era raggiunta l’unità ed anche dei vari rivolgimenti.

Il fascismo che, nella sua propensione per il nero ci stava portando verso un avvenire funereo, badava, forse fortunatamente, più all’apparenza che alla sostanza. Verso la fine dell’avventura, quando aveva conquistato l’Impero e aveva conseguito, anche all’estero, fama di regime autoritario ma “costruttivo”, ha rivolto la sua attenzione a cose tragiche (come la persecuzione degli Ebrei) ed anche a futili argomenti. Tra questi, la trasformazione delle abitudini italiane nei rapporti umani: niente più stretta di mano ma solo “saluti fascisti” (anche nella corrispondenza, in cambio dei “distinti saluti”); sostituzione del “Lei” con il “Voi” e, fondamentale innovazione, l’abolizione assoluta del titolo di “Signore” a favore di “Camerata” (accompagnato dall’odore di caserma). Naturalmente, rivolgendosi al Capo supremo non sarebbe stato possible usare questo epiteto, a lui spettando l’esclusivo “Duce”.

“Camerata” veniva proposto, penso, in contrapposizione all’odiato “compagno” usato dai reprobi “rossi” senza riflettere che questi, fuori dal nostro Paese, si designavano come “comrade” o “kamerad”.

In Italia, però, è difficile far digerire in modo assoluto certe direttive; per cui, mentre nelle lettere ufficiali il “signore” era scomparso, si continuava ad usarlo nelle relazioni private, come segno di buona educazione. Anche in certe confraternite, come la Chiesa o la Marina, si è perseverato nel peccato: ricordo che a bordo delle (ancora) Regie Navi ci si è sempre rivolti agli ufficiali (tranne che al Comandante) premettendo al cognome il “Signor”.

Dopo la caduta del fascismo, la guerra di liberazione e la prima ricostruzione, la confusione, forse, è aumentata. Si disprezzavano gli “spagnolismi” senza sapere che quel popolo usa molto più di noi il titolo “Señor” ma, nello stesso tempo, questo appellativo cambiava gradualmente di significato, fino ad assumerne uno essenzialmente dispregiativo, almeno quando è seguito solo dal nome non accompagnato da altri titoli.

Mentre dire Mr. Bush o Mr. Blair od anche M. Chirac non suona alcuna offesa al presidente USA, al Primo Ministro britannico o al Presidente francese, quando in Italia ci si indirizza a personaggi di simile rango bisogna specificare “il Signor Presidente della Repubblica” oppure “ il Signor Presidente del Consiglio”. Dire semplicemente “Signor Prodi” oppure “Signor Berlusconi” suona quale grave offesa e dileggio nei confronti dei citati. Quando si ode alla radio o alla TV qualcuno che apostrofa un gruppo politico, economico o industriale con un “quei signori” ciò significa che li considera meritevoli della forca, se questa venisse riadottata.

D’altra parte, mi sembra che il significato spregiativo di “Signore” venga confermato dal fatto che gli indirizzi delle bollette o della pubblicità da qualche tempo sono compilati con l’inusitata formula:

“Gentile …….Nome e Cognome” (senza altri attributi).

RIMORSI - La zingarella

Il vagone della "mètro" (come dicono gli italiani) era pieno; come al solito, in piedi, seguivo le strategie migliori per garantire la minima interferenza con i miei simili e, nello stesso tempo, per dare loro il minimo fastidio. Di fermata in fermata effettuavo le mosse opportune per avvicinarmi alla porta più conveniente per la discesa. La gente parla poco, a Milano; la folla resta silenziosa tranne quando salgono comitive di tifosi che vanno alla partita, scolaresche in gita premio oppure, talvolta, strani gruppi di donne dell'Est europeo che si spostano da una stazione ferroviaria all'altra per raggiungere il luogo di lavoro. Parlano di più, non dico a Roma ma a Parigi o Madrid. Improvvisamente il silenzio viene rotto da una voce che, in un italiano, forse volutamente, stentato, chiede aiuto a nome di figli e mogli che hanno fame; per sottolineare la richiesta attacca un'improbabile canzone ad alto volume accompagnandosi con un'asmatica fisarmonica. Immediatamente la mia reazione di uomo d'ordine ("come si può consentire che, oltre ai graffitari e ai vandali, si debba sottostare a questi supplizi") mi fa voltare la testa verso il finestrino per non vedere il questuante che, ultimato il pezzo, passa con il cappello in mano e scende per cambiare vagone e ripetere tutta la scena.

Il nostro cervello è sempre in funzione e, soprattutto quando non è occupato in qualcosa di specifico, salta da un argomento all'altro con frequenza altissima, talvolta miscelando parecchi pensieri seza soffermarsi su alcuno. Forse, in circostanze simili le menti eccelse hanno la capacità di estrarre dal groviglio di temi che passano uno dietro l'altro più veloci di certi avvisi pubblicitari a lettere di fuoco, un pensiero che diventa fonte di ispirazione per creare opere somme. A me questo non succede ed il rumore di fondo resta tale fino a quando sopravviene la necessità di occuparsi di un argomento specifico.

Alla mia fermata, disceso senza problemi, ho intrapreso la salita alla superficie, osservando, come sempre, lo stato dei dispositivi tecnici (scale mobili e fisse, altoparlanti, servizi vari) e confrontandoli con quelli similari che conosco. Devo confessare che, pur proclamando la mia avversione per il trionfo della tecnologia, ammiro le "grandi opere" quando funzionano: nel mio intimo (ma non lo confesso) apprezzo di più il Golden Gate bridge, la Hauptbahnhof di Stoccarda o l'aeroporto O'Hara di Chicago che non la Basilica di S. Maria Maggiore.

Soddisfatto per non avere riscontrato gravi deficenze o sozzure, mi sono avviato per l'ultima scala (fissa) che porta all'emersione e ho guardato la luce del giorno che ne ornava la sommità. Una figuretta si stagliava contro il cielo. Era una bambina di 5 o 6 anni, infagottata in una giacchetta impermeabile e con un berrettuccio di lana in testa. Un braccino si propendeva verso chi saliva in un muto ma eloquente gesto. Nessuna madre o accompagnatore (o sfruttatore) era in vista. Intanto il segnale di attenzione ai problemi tecnici delle ferrovie sotterranee si era attenuato e il miscelatore aveva ricominciato il suo lavoro: il mio cervello si occupava nuovamente di tutto e di nulla.

Però, avvicinandomi alla bambina ho avuto un lampo di concentrazione che mi ha detto: "guarda, potrebbe essere la mia beneamata nipotina" per correggersi subito: "se io le do qualcosa chissà a chi gioverà". Uscendo dalla scala mi sono spostato dalla parte opposta e mi sono allontanato a passi rapidi mentre il miscelatore funzionava nuovamente in pieno. Dopo cento metri ho incontrato il solito barbone, seduto per terra e appoggiato con la schiena al muro di una casa. E' sempre lì, ad orario fisso e sparisce solo quando piove o nevica oppure durante la canicola di mezzo Agosto. Non chiede mai nulla, non stende la mano, forse medita? Ma su cosa? Anche il suo cervello funziona come il mio, chissà quale cocktail di pensieri si agita dentro la sua testa. Quando passo gli do qualcosa perché non chiede: mi ringrazia. Ma oggi funziona da trigger; un lampo: perché non mi sono fermato quando ho visto quella bambina che assomigliava a mia nipote? Non posso tornare a casa con questo peso!

Intanto cominciava a piovere; si faceva tardi, le luci si accendevano e la bruma cominciava a sfumare, togliendone l'ovvietà e la bruttezza, i contorni delle case, delle cose e delle persone. Torno indietro quasi di corsa: alla sommità della scala non c'è alcuna bambina. Scendo a precipizio le scale ed esploro ansioso il mezzanino; la folla che rientra dal lavoro si va ormai diradando, il bar è vuoto, alla rivendita dei giornali non c'è più nessuno. Con uno sforzo, vincendo la mia natura, chiedo al controllore dei tornelli se ha visto una bambina che chiedeva l'elemosina: "no, perché, le hanno rubato il portafoglio? Sa, ieri ci sono state molte denunce di borseggi; sono zingari che mandano avanti bambini addestrati. Sono bravissimi. Lei dovrebbe sporgere denuncia; non serve a nulla, ma……"

Risalgo nella via; ormai è buio; mi sento solo e vuoto di tutto fuorché di rimorsi.

Un rimorso per un atto non compiuto che solo a posteriori ho considerato giusto, meritevole di un minimo sacrificio, richiama una moltitudine di rimorsi: quelli per avere offeso altri esseri o per non aver speso una parola per consolare o per chiedere perdono. Peccati di omissione, spesso, come dicono i preti, non meno gravi di altri.

E sì, quando si ripresenta questa torma di mostricciattoli che mordono la coscienza come quelli dei quadri di Brueghel, tutto quel poco di buono che si crede di aver fatto nella vita diventa meschino e inutile. C'é solo da augurarsi che il rumore di fondo riprenda e che il miscelatore cancelli questo molesto e insistente segnale.