sabato 17 aprile 2010

IL CASO E LA VITA: un esempio

IL  CASO E LA VITA: un esempio

Non è mia intenzione di entrare (e neppure sfiorare) gli argomenti filosofici legati  al problema del caso nella vita dell’uomo o  dissertare sulla disputa tra determinismmo e “accidentalismo”.

Vorrei solo descrivere alcuni eventi che  hanno segnato la mia lunga vita: quali  possono essere considerati “fortuiti” e quali, invece, sono stati, se non causati direttamente, almeno influenzati dalla mia volontà. Naturalmente segue subito la domanda: “chi o  cosa ha influenzato la mia volontà?”

 

Sono stato testimonio (sia pure parziale) di un periodo della storia umana piuttosto lungo: se consideriamo a circa 15 anni l’inizio  dell’esistenza cosciente di ogni individuo (cioè da quando si è in grado di giudicare il mondo intorno a se), si può dire che ho  testimoniato per più  di 70 anni di ciò che accadeva intorno a me. In circa 3000 anni di storia periodi di questa lunghezza sono stati ricchi di avvenimenti considerati determinanti per la successiva evoluzione del genere umano.

Sono  nato quando era appena conclusa l’inutile carneficina della prima guerra mondiale. Ho trascorso  la fanciullezza e la prima giovinezza in un paese  governato dalla dittatura, prima osannata dai più, poi, quando ci ha portato alla guerra e alla rovina, maledetta. Sono  passato attraverso la tragedia senza ferirmi né nel corpo né  nello spirito e, quando ne sono uscito, ho vissuto le speranze della riconquistata libertà e la fede nel progresso morale e civile. Poi le disillusioni, i pericoli  dei ritorni, il vacillare della fede nel miglioramento della specie umana.

E’ questo il “normale” avvicendarsi delle sensazioni che provano i  miei simili di ogni generazione durante la loro vita (almeno quelli che possiedono una coscienza)?

Le stesse speranze e le stesse disillusioni per un romano vissuto al tempo di Cesare, per un milanese al  tempo  di Napoleone e per un italiano (forse anche per  un europeo) che è  stato  testimonio di quasi tutto il secolo delle grandi guerre, delle dittature e del trionfo della tecnica e che ora assiste a pericolosi ritorni? E’ ben vero che l’assetto del Mondo sta cambiando, che l’iniziativa sta passando in nuove mani, che i popoli che dormivano soffrendo e che non contavano si sono svegliati; ma non sappiamo se, quando avranno il governo dell’Umanità, il loro comportamento  sarà più saggio di  quello  dei “bianchi” fino ad oggi dominatori.

 

Ma non oso azzardare previsioni. Qui vorrei  solo tentare di descrivere, attraverso il racconto di una parte della mia vita, come atti volontari di un individuo (quanto volontari e quanto condizionati?) abbiano potuto determinarne l’esistennza.

Per ora restringerò la mia analisi al periodo giovanile, quello vissuto durante la seconda conflagrazione mondiale.

 

- Il  conflitto della  coscienza

Prima la speranza di soluzioni pacifiche (Monaco). Ero  un ragazzo ma cosciente della ipoteca che la storia stava ponendo sulla mia stessa esistenza. Provavo vergogna per la mia condizione di appartenente ad un paese governato da una dittatura che proclamava un credo così nettamente in contrasto con l’educazione ricevuta dalla famiglia, dalle letture ed anche, almeno in parte, dalla scuola. Sì, anche la scuola: almeno quella che ho frequentato io era sufficientemente libera e aperta: le iniziative del Regime scivolavano senza penetrare: erano ritenute, dalla maggioranza degli insegnanti e dei discenti, delle seccature senza conseguenze sullo sviluppo morale delle nuove generazioni. Però  due fatti avevano colpito (in modo molto diversificato) le coscienze: l’alleanza con Hitler e l’imitazione del Nazismo (solo un poco edulcorata) nella persecuzione degli Ebrei. Non bastava esprimere simpatia e solidarietà agli amici che si trovavano in quella situazione: la coscienza diceva che eravamo e restavamo dalla parte dei persecutori.

 

Intanto io uscivo  dalla scuola “umanistica” ed entravo all’Università. Malgrado i suggerimenti del mio più apprezzato insegnante, sceglievo, come tanti quell’anno, una facoltà tecnica. Qui si parlava poco di politica ed anche di problemi politico-filosofici. Chi e che cosa hanno determinato quella scelta, pure fondamentale per la mia vita? Vediamone le conseguenze immediate.

Mentre io risolvevo  il mio conflitto senza convinzione scegliendo la tecnologia invece della filosofia (intesa in senso generale) Hitler invadeva la Polonia  e la guerra aveva inizio. Ma il nostro Paese, sotto  l’illuminata guida dell’ Uomo del destino, ne rimaneva temporaneamente fuori.

Malgrado  l’inusitata (ed equivoca) formula della “non belligeranza” sentivo l’avvicinarsi del baratro. Come comportarsi? La mia avversione al fascismo avrebbe giustificato di nascondersi, come facevano molti che, invece, manifestavano “fede incrollabile nei luminosi destini della Patria”.

Ho già descritto il mio stato d’animo di quel periodo; non auguro a nessun giovane di oggi di doversi confrontare con simili problemi di coscienza.

Intanto il periodo di maggior vergogna per il nostro Paese si avvicinava: tutta l’Europa è sotto il giogo del mostro nazista: dobbiamo affrettarci, altrimenti non ci resteranno che degli ossi da rosicchiare; entriamo in guerra e, per acquistare qualche diritto di compartecipazione, ce la prendiamo con la piccola Grecia; ahi! E’ subito chiaro che lo spirito bellico e la preparazione erano aria fritta. Sono i figli del popolo che pagano le vuote spacconate del Duce. E gli studenti? Perché devono restare a casa? Diamo un esempio: chiamiamo i più giovani, quelli nati nel ’21, sospendendo il loro diritto a rinviare il servizio militare. Ecco, qui entra in giuoco un mio atto volontario, la scelta della facoltà compiuta l’anno prima. Da sempre avevo desiderato di compiere il servizio militare obbligatorio in Marina. All’Accademia Navale di Livorno erano previsti dei corsi per aspiranti ufficiali di complemento riservati agli studenti universitari iscritti al terzultimo anno di laurea, cioè al secondo anno per i corsi di quattro anni, come lettere o legge; io frequentavo il  secondo anno del corso di laurea in Ingegneria, che era di cinque anni ed ero nella leva di terra. Quindi non avevo questa possibilità quando Mussolini, per dare un esempio, ha chiamato gli studenti più giovani, quelli del ’21, appunto. Se fossi  stato iscritto a legge o filosofia sarei forse andato a Livorno già nel 1941 e imbarcato nel 1942 anziché nel 1943. Ecco una conseguenza di una decisione apparentemente libera.

 

Poi la “carriera” nell’Esercito: recluta, caporale, sergente. Nel 1942 ero pronto per il rapido corso di allievo ufficiale e per una destinazione in qualche distretto metropolitano oppure in un paese occupato (Croazia, Grecia) oppure al fronte Ucraino, oppure in Africa settentrionale, oppure….

Ma la domanda di trasferimento nella leva di mare era ancora operativa e c’era qualcuno che la stava seguendo.

 

L’ammiraglio

Ritornavo  in caserma dopo una breve licenza a casa (erano iniziati i bombardamenti e la gente cominciava a sfollare ma Mussolini annunziava il prossimo arrivo del “bello”). Entrando nella camerata dei sottufficiali non ho più trovato la mia branda: il caporalmaggiore di servizio mi ha subito informato: “Sergente, voi siete stato trasferito!”.

In effetti era giunta la comunicazione del mio trasferimento alla leva di mare per l’ammissione, previa visita medica e attitudinale, ad un corso rapido per allievi ufficiali di complemento all’Accademia Navale di Livorno.

A chi dovevo questo inaspettato e, a me, gradito provvedimento? Non ricordavo neppure che molto tempo prima avevo angustiato mio Padre chiedendogli se potesse “raccomandarmi” presso qualche suo amico per farmi passare, in modo piuttosto anomalo, in Marina. Credevo che la mia richiesta non avesse avuto seguito; invece, per farmi piacere e con la sofferta approvazione di mia Madre, una lettera era stata inviata ad un amico di famiglia che io non conoscevo. Non ho mai saputo quale ne fosse il tenore: sono sicuro, tuttavia, che vi si diceva che io amavo il mare e che volevo un imbarco.

Il destinatario della lettera era l’Ammiraglio comandante della flotta. Malgrado la tragedia incombente, il dolore per le sconfitte subite e per la perdita delle sue navi e di tanti suoi marinai,  e, probabilmente, l’avversione al Regime, l’Ammiraglio Angelo Jachino si è occupato anche del mio caso. Forse lo  ha fatto volentieri, forse ha apprezzato che la richiesta fosse per esporsi e non per nascondersi.

E’ certo che quella “raccomandazione” mi ha consentito di passare attraverso uno dei periodi più bui nella storia del nostro Paese in modo dignitoso e compiendo anche un servizio utile alla causa della libertà.

Non ho mai incontrato il mio benefattore e non ho avuto neppure notizia della sua scomparsa. Solo molto tempo dopo ho letto il ricordo scritto da Dino Buzzati, in occasione del varo del lanciamissili “Vittorio Veneto”, nel 1966:

 

“L’ammiraglio se ne stava silenzioso. I suoi occhi azzurri, gelidi, guardavano lontano, oltre lo scafo in bilico sullo scalo, al di là delle bandiere. Forse per il vento gelido che tirava giù dritto dalle montagne dell’Irpinia, ma più probabilmente a causa dei ricordi, di tanto in tanto qualcosa di lucido gli passava nello sguardo. In quel momento la sua mente andava a quella notte – anch’essa gelida – di venticinque anni prima, quando tremila suoi marinai erano <<>> a sud di Capo Matapan.”

 

Ed ecco dove quella “raccomandazione” ha condotto la mia vita:  l’imbarco su una delle navi  da battaglia più vicine all’avanzata del nemico e a quello che sembrava un infausto destino e non, per esempio, sulla corazzata “Roma”, nuova e potente, che se ne stava in una base navale molto più vicina a casa; forse non c’era posto per me. Peccato, mia Madre avrebbe trovato certamente il modo, prima dell’8 Settembre 1943, di farmi visita a La Spezia durante una “franchigia” domenicale, cosa che, invece, non le è stata più possibile dopo la mia partenza per Taranto. Ma dopo due anni di angoscia mi ha rivisto mentre, dopo l’8 Settembre 1943, non avrebbe più riavuto il suo unigenito che , con grande probabilità, sarebbe scomparso con tanti altri mentre la nave ammiraglia della nostra flotta si disintegrava, colpita da una bomba “speciale” mentre cercava di fuggire la vendetta tedesca.

Invece il “caso” mi ha consentito di passare come una salamandra attraverso il fuoco della guerra: e, cosa ancora più importante, ho potuto, pur nell’angoscia della separazione dai miei genitori, godere il mare e compiere un dignitoso servizio: la scorta ai convogli che rifornivano le truppe alleate nel loro lento risalire la nostra martoriata Penisola.

 

Ciò che ho descritto è solo uno dei casi della vita (in questo caso la mia) che sembrano determinati, in parte, dalla propria volontà. Ma il mistero resta.

 

Aprile 2010

 

 

 

giovedì 8 aprile 2010

Una “grande opera”: La storia infinita del Ponte sullo Stretto di Messina

Come tante altre vicende italiane anche questa viene regolarmente ripresentata ogni quarto di secolo all'attenzione dei cittadini e forma materia di acceso dibattito politico senza mai trovare una realizzazione.
Ritengo di poterne parlare, come si dice, con "cognizione di causa", perché, non un quarto di secolo fa ma addirittura nel 1955, sono stato responsabile di uno studio geofisico commissionato dalla Regione Siciliana alla organizzazione per cui lavoravo. L'indagine avrebbe dovuto condurre, in tempi brevi, alla definizione del progetto ed alla costruzione del ponte.

Ricordo che il mio innato pessimismo mi portava alla seguente, intima, considerazione: "un'opera di questa mole, tenuto conto delle condizioni al contorno, non è assolutamente prioritaria. Tuttavia, siccome per iniziare la fase di realizzazione bisognerà attendere almeno una diecina d'anni, facciamo pure lo studio: nel 1965 l'opera, forse, potrà essere considerata necessaria".

Ed io non ero neppure il primo ad occuparmene: nel 1942, cioè in piena guerra, quando già si profilava l'invasione e la sconfitta, l'ANAS aveva effettuato un'indagine sulle sponde dello Stretto i cui risultati sono, poi, andati dispersi. Ma il problema si discuteva in Parlamento fino dai tempi di Giolitti quando un deputato, non so bene di quale parte politica, esprimeva un giudizio negativo sul problema, dicendo che non gli sembrava conveniente un'opera del genere per "trasportare attraverso lo Stretto qualche cesta di arance".

Torniamo all'indagine geofisica del 1955. Il nostro studio si basava sul primo progetto preliminare che prevedeva la posa di due piloni sul fondo dello Stretto (per intenderci, come per il ponte del Golden Gate). Il quesito posto era sostanzialmente la determinazione dello spessore e della natura dei sedimenti e del "basamento cristallino" in corrispondenza sia delle sponde che dello Stretto stesso.

Malgrado le difficoltà rappresentate dalla complessa situazione geologica e, nelle profonde acque dello Stretto, dalle fortissime correnti e considerando anche i limiti delle tecnologie disponibili allora, i risultati hanno consentito di valutare chiaramente spessore e proprietà meccaniche delle formazioni geologiche. Queste ultime risultano molto scadenti fino a notevole profondità non solo per quanto riguarda i sedimenti ma anche il "basamento cristallino" che risulta fortemente alterato fino a parecchie centinaia di metri sotto il piano di campagna e sotto il fondo dello Stretto. I progetti successivi, a quanto pare, hanno abbandonato l'idea dei piloni nello Stretto, dove, oltre alle condizioni geotecniche sfavorevoli, la notevole profondità dei fondali (circa 150 metri) e le fortissime (e variabili) correnti renderebbero molto difficili i lavori.

Il progetto della campata unica, tuttavia, porta ad una gravissima conseguenza: come parecchi tecnici fanno osservare, la campata risulterebbe troppo lunga per consentire, in condizioni sempre sicure, l’ attraversamento ferroviario. Questo mi sembra un punto essenziale; non risolvere compiutamente il problema delle rotaie sarebbe veramente un argomento a favore dei contrari. D'altra parte la resistenza del lungo ponte sospeso risulterebbe minore nel caso di un grande evento sismico.

Bisogna dire tuttavia che i problemi tecnologici, se affrontati in modo corretto, sono ormai tutti (o quasi) superabili. Ciò che, invece, non sembra superabile è l'eterna e sempre acrimoniosa discussione di questioni che non vengono mai affrontate in modo serio, forse perché nessuno ha questa intenzione. E' possibile che i contendenti pensino di ricavare un qualche utile dal protrarsi della polemica.

Tornando al ponte, due "scuole di pensiero" si affrontano da più di un cinquantennio:

- la prima (contro) sostiene che il ponte, se costruito senza che si siano realizzate le necessarie "infrastrutture", rimarrà come un orrendo monumento allo spreco ed alla corruzione, e costituirà unicamente una grave offesa per l'ambiente.

- La seconda (i favorevoli) sostiene che questa "grande opera" innescherà la realizzazione di ciò che manca (le "infrastrutture") e darà una spinta alla modernizzazione del Sud.

E' certo che il rischio paventato dai contrari, visti i tanti precedenti italiani, è molto forte. Per lo meno occorrerebbe iniziare subito a lavorare sulle infrastrutture. L'aspirazione a realizzare "grandi opere" prima di sistemare decentemente l'esistente attraverso un migliore equilibrio delle risorse e dei servizi (vedi il problema dei trasporti su gomma, su rotaia e per mare) mi ricorda i vari "exploits" del ventennio, vantati come "realizzazioni del genio italico": l'aereo più veloce del mondo gli elettrotreni, i transatlantici, tutti i più veloci del mondo, punte isolate usate dal regime per "épater les bourgeois".

Malgrado tutto, però, il vecchio che sono io non nega che gli farebbe piacere attraversare lo Stretto in cinque minuti, comodamente seduto in un vagone ferroviario, guardando dall'alto Scilla, il lago di Ganzirri ed i piccoli pescherecci a caccia del pesce spada.

Mi consentano gli ambientalisti di non essere d'accordo con loro su di un punto: queste grandi opere non tolgono ma aggiungono bellezza al paesaggio. Come apparirebbe la stretta del Gard senza il bimillenario acquedotto di Augusto? E il Golden Gate, dove la bellezza dell'ambiente non è certo inferiore a quella dello Stretto di Messina, come sarebbe senza la maestosità del ponte?

A proposito del Ponte: “Tutti i pesci vennero a galla”……una storia di 55 anni fa.

Uno stretto braccio di mare. Le rive sono verdi ma le sovrastanti montagne appaiono brulle e sassose. Dalla parte dove sta calando il sole la costa è più bassa: c’è una serie quasi ininterrotta di paesi fino ad una punta ornata da un faro. Qui, a settentrione, le due rive si avvicinano tanto che sembra abbiano voglia di toccarsi ma più oltre si indovina il mare aperto e libero. A sud, invece, le sponde si allontanano sempre di più fino a lasciarsi.

Sulla riva occidentale la striscia di terra bassa è separata dalle colline da un paio di laghetti. Un bambino, armato di secchiello e paletta, gioca con la sabbia sulla riva. Ogni tanto si arresta per fissare il movimento delle acque: sono calme, trasparenti e di un colore invitante, verde-azzurro, non si vedono quelle onde e quei frangenti che, su altre spiagge, gli fanno tanta paura. Però c’è qualcosa di misterioso che, nello stesso tempo, attrae e incute timore: vicino alla riva si forma un gorgo che sembra poter risucchiare ogni cosa nel profondo. Papà, che è molto coraggioso, ieri gli ha mostrato cosa succede: si è tuffato in un punto e, senza muovere neppure un dito, è stato velocemente trasportato dal mare lungo la costa; è stato attento però a rimanere vicino a riva per non venire inghiottito dal gorgo. In quel momento, però, il bimbo ha visto un altro fenomeno: il mare si è messo a combattere contro se stesso; ribollendo e schiumando, la corrente ha invertito il corso e la barchetta di carta che lui aveva messo in acqua, è stata trascinata in direzione opposta, verso il lontano faro, ed è scomparsa.

Da migliaia di anni altri bambini hanno certo fatto simili esperienze. Anche oggi tanti bimbi giocano sulla spiaggia. Ogni tanto qualcuno di loro si avvicina allo “straniero” (così appare a loro a causa del suo vestire e di come si esprime) e scambia qualche parola: la conversazione è un po’ difficile perché i termini usati per indicare le stesse cose sono diverse. Ma i gesti suppliscono alle difficoltà linguistiche.

Ora accade un fatto nuovo: arriva un ragazzetto con nelle mani due grossi pesci e li offre allo “straniero”: sono proprio freschi, si agitano ancora. Ma subito dopo segue un altro ragazzo, anche lui con due pesci; indica il mare; la corrente sta portando verso la riva un gran numero di pesci: tutti galleggiano con la pancia in aria:

“Apelle, figlio di Apollo, fece una palla di pelle di pollo e tutti i pesci vennero a galla………”

Ma Apelle non c’entra. Nello stretto c’è grande agitazione, adesso: si vedono tante barche, quelle con l’albero dove monta l’uomo in vedetta per avvistare il pesce spada, che stanno circondando un natante più grosso. Cosa è successo? I ragazzotti dicono: “Scoppiarono nel mare e i pesci morti sono!”

Il bimbo non lo sa, ma la mamma sì: è colpa di papà che fa i botti in mare per studiare come è fatto il fondo; gli hanno dato l’incarico di vedere se la roccia sommersa è forte abbastanza per sostenere due enormi piloni di appoggio ad un grande ponte che colleghi le due rive, il ponte sognato da secoli che, unendo la grande isola al continente, porterà ricchezza e lavoro a tutti.

Ma i pescatori non hanno apprezzato la pesca miracolosa: protestano e minacciano vendetta bloccando la navicella degli investigatori con tutti i loro strani apparecchi.

La mamma ringrazia i bambini e dice “tenetevi questo buon pesce e portatelo a casa”. Prende il suo piccolo che vorrebbe restare e cerca di trascinarlo via: si sente anche lei oggetto di quella protesta e, in qualche modo, dalla parte dei responsabili di quella strage di innocenti. Il bimbo resiste e fa capricci; la madre lo prende a forza e se lo carica sulle spalle mentre gli strilli arrivano al cielo. Quando raggiunge la strada si arresta per riposare: l’assembramento delle barche si sta già rarefacendo. Evidentemente qualcosa o qualcuno ha rapidamente ed efficacemente operato per “sgonfiare” la protesta. Si vede già la motolancia della Capitaneria che riparte e mette la prua verso il porto, più a sud. Ritorna la calma e le ricerche riprendono.

La giovane mamma pensa: “Poveri pesci e poveri pescatori, tutti fanno sacrifici: ne varrà la pena ?”

E’ questa la domanda, che, soprattutto nel nostro Paese, si rivolgono ossessivamente tutte le persone oneste che si accingono ad affrontare un nuovo o vecchio ma irrisolto problema, piccolo o grande che sia.