sabato 17 aprile 2010

IL CASO E LA VITA: un esempio

IL  CASO E LA VITA: un esempio

Non è mia intenzione di entrare (e neppure sfiorare) gli argomenti filosofici legati  al problema del caso nella vita dell’uomo o  dissertare sulla disputa tra determinismmo e “accidentalismo”.

Vorrei solo descrivere alcuni eventi che  hanno segnato la mia lunga vita: quali  possono essere considerati “fortuiti” e quali, invece, sono stati, se non causati direttamente, almeno influenzati dalla mia volontà. Naturalmente segue subito la domanda: “chi o  cosa ha influenzato la mia volontà?”

 

Sono stato testimonio (sia pure parziale) di un periodo della storia umana piuttosto lungo: se consideriamo a circa 15 anni l’inizio  dell’esistenza cosciente di ogni individuo (cioè da quando si è in grado di giudicare il mondo intorno a se), si può dire che ho  testimoniato per più  di 70 anni di ciò che accadeva intorno a me. In circa 3000 anni di storia periodi di questa lunghezza sono stati ricchi di avvenimenti considerati determinanti per la successiva evoluzione del genere umano.

Sono  nato quando era appena conclusa l’inutile carneficina della prima guerra mondiale. Ho trascorso  la fanciullezza e la prima giovinezza in un paese  governato dalla dittatura, prima osannata dai più, poi, quando ci ha portato alla guerra e alla rovina, maledetta. Sono  passato attraverso la tragedia senza ferirmi né nel corpo né  nello spirito e, quando ne sono uscito, ho vissuto le speranze della riconquistata libertà e la fede nel progresso morale e civile. Poi le disillusioni, i pericoli  dei ritorni, il vacillare della fede nel miglioramento della specie umana.

E’ questo il “normale” avvicendarsi delle sensazioni che provano i  miei simili di ogni generazione durante la loro vita (almeno quelli che possiedono una coscienza)?

Le stesse speranze e le stesse disillusioni per un romano vissuto al tempo di Cesare, per un milanese al  tempo  di Napoleone e per un italiano (forse anche per  un europeo) che è  stato  testimonio di quasi tutto il secolo delle grandi guerre, delle dittature e del trionfo della tecnica e che ora assiste a pericolosi ritorni? E’ ben vero che l’assetto del Mondo sta cambiando, che l’iniziativa sta passando in nuove mani, che i popoli che dormivano soffrendo e che non contavano si sono svegliati; ma non sappiamo se, quando avranno il governo dell’Umanità, il loro comportamento  sarà più saggio di  quello  dei “bianchi” fino ad oggi dominatori.

 

Ma non oso azzardare previsioni. Qui vorrei  solo tentare di descrivere, attraverso il racconto di una parte della mia vita, come atti volontari di un individuo (quanto volontari e quanto condizionati?) abbiano potuto determinarne l’esistennza.

Per ora restringerò la mia analisi al periodo giovanile, quello vissuto durante la seconda conflagrazione mondiale.

 

- Il  conflitto della  coscienza

Prima la speranza di soluzioni pacifiche (Monaco). Ero  un ragazzo ma cosciente della ipoteca che la storia stava ponendo sulla mia stessa esistenza. Provavo vergogna per la mia condizione di appartenente ad un paese governato da una dittatura che proclamava un credo così nettamente in contrasto con l’educazione ricevuta dalla famiglia, dalle letture ed anche, almeno in parte, dalla scuola. Sì, anche la scuola: almeno quella che ho frequentato io era sufficientemente libera e aperta: le iniziative del Regime scivolavano senza penetrare: erano ritenute, dalla maggioranza degli insegnanti e dei discenti, delle seccature senza conseguenze sullo sviluppo morale delle nuove generazioni. Però  due fatti avevano colpito (in modo molto diversificato) le coscienze: l’alleanza con Hitler e l’imitazione del Nazismo (solo un poco edulcorata) nella persecuzione degli Ebrei. Non bastava esprimere simpatia e solidarietà agli amici che si trovavano in quella situazione: la coscienza diceva che eravamo e restavamo dalla parte dei persecutori.

 

Intanto io uscivo  dalla scuola “umanistica” ed entravo all’Università. Malgrado i suggerimenti del mio più apprezzato insegnante, sceglievo, come tanti quell’anno, una facoltà tecnica. Qui si parlava poco di politica ed anche di problemi politico-filosofici. Chi e che cosa hanno determinato quella scelta, pure fondamentale per la mia vita? Vediamone le conseguenze immediate.

Mentre io risolvevo  il mio conflitto senza convinzione scegliendo la tecnologia invece della filosofia (intesa in senso generale) Hitler invadeva la Polonia  e la guerra aveva inizio. Ma il nostro Paese, sotto  l’illuminata guida dell’ Uomo del destino, ne rimaneva temporaneamente fuori.

Malgrado  l’inusitata (ed equivoca) formula della “non belligeranza” sentivo l’avvicinarsi del baratro. Come comportarsi? La mia avversione al fascismo avrebbe giustificato di nascondersi, come facevano molti che, invece, manifestavano “fede incrollabile nei luminosi destini della Patria”.

Ho già descritto il mio stato d’animo di quel periodo; non auguro a nessun giovane di oggi di doversi confrontare con simili problemi di coscienza.

Intanto il periodo di maggior vergogna per il nostro Paese si avvicinava: tutta l’Europa è sotto il giogo del mostro nazista: dobbiamo affrettarci, altrimenti non ci resteranno che degli ossi da rosicchiare; entriamo in guerra e, per acquistare qualche diritto di compartecipazione, ce la prendiamo con la piccola Grecia; ahi! E’ subito chiaro che lo spirito bellico e la preparazione erano aria fritta. Sono i figli del popolo che pagano le vuote spacconate del Duce. E gli studenti? Perché devono restare a casa? Diamo un esempio: chiamiamo i più giovani, quelli nati nel ’21, sospendendo il loro diritto a rinviare il servizio militare. Ecco, qui entra in giuoco un mio atto volontario, la scelta della facoltà compiuta l’anno prima. Da sempre avevo desiderato di compiere il servizio militare obbligatorio in Marina. All’Accademia Navale di Livorno erano previsti dei corsi per aspiranti ufficiali di complemento riservati agli studenti universitari iscritti al terzultimo anno di laurea, cioè al secondo anno per i corsi di quattro anni, come lettere o legge; io frequentavo il  secondo anno del corso di laurea in Ingegneria, che era di cinque anni ed ero nella leva di terra. Quindi non avevo questa possibilità quando Mussolini, per dare un esempio, ha chiamato gli studenti più giovani, quelli del ’21, appunto. Se fossi  stato iscritto a legge o filosofia sarei forse andato a Livorno già nel 1941 e imbarcato nel 1942 anziché nel 1943. Ecco una conseguenza di una decisione apparentemente libera.

 

Poi la “carriera” nell’Esercito: recluta, caporale, sergente. Nel 1942 ero pronto per il rapido corso di allievo ufficiale e per una destinazione in qualche distretto metropolitano oppure in un paese occupato (Croazia, Grecia) oppure al fronte Ucraino, oppure in Africa settentrionale, oppure….

Ma la domanda di trasferimento nella leva di mare era ancora operativa e c’era qualcuno che la stava seguendo.

 

L’ammiraglio

Ritornavo  in caserma dopo una breve licenza a casa (erano iniziati i bombardamenti e la gente cominciava a sfollare ma Mussolini annunziava il prossimo arrivo del “bello”). Entrando nella camerata dei sottufficiali non ho più trovato la mia branda: il caporalmaggiore di servizio mi ha subito informato: “Sergente, voi siete stato trasferito!”.

In effetti era giunta la comunicazione del mio trasferimento alla leva di mare per l’ammissione, previa visita medica e attitudinale, ad un corso rapido per allievi ufficiali di complemento all’Accademia Navale di Livorno.

A chi dovevo questo inaspettato e, a me, gradito provvedimento? Non ricordavo neppure che molto tempo prima avevo angustiato mio Padre chiedendogli se potesse “raccomandarmi” presso qualche suo amico per farmi passare, in modo piuttosto anomalo, in Marina. Credevo che la mia richiesta non avesse avuto seguito; invece, per farmi piacere e con la sofferta approvazione di mia Madre, una lettera era stata inviata ad un amico di famiglia che io non conoscevo. Non ho mai saputo quale ne fosse il tenore: sono sicuro, tuttavia, che vi si diceva che io amavo il mare e che volevo un imbarco.

Il destinatario della lettera era l’Ammiraglio comandante della flotta. Malgrado la tragedia incombente, il dolore per le sconfitte subite e per la perdita delle sue navi e di tanti suoi marinai,  e, probabilmente, l’avversione al Regime, l’Ammiraglio Angelo Jachino si è occupato anche del mio caso. Forse lo  ha fatto volentieri, forse ha apprezzato che la richiesta fosse per esporsi e non per nascondersi.

E’ certo che quella “raccomandazione” mi ha consentito di passare attraverso uno dei periodi più bui nella storia del nostro Paese in modo dignitoso e compiendo anche un servizio utile alla causa della libertà.

Non ho mai incontrato il mio benefattore e non ho avuto neppure notizia della sua scomparsa. Solo molto tempo dopo ho letto il ricordo scritto da Dino Buzzati, in occasione del varo del lanciamissili “Vittorio Veneto”, nel 1966:

 

“L’ammiraglio se ne stava silenzioso. I suoi occhi azzurri, gelidi, guardavano lontano, oltre lo scafo in bilico sullo scalo, al di là delle bandiere. Forse per il vento gelido che tirava giù dritto dalle montagne dell’Irpinia, ma più probabilmente a causa dei ricordi, di tanto in tanto qualcosa di lucido gli passava nello sguardo. In quel momento la sua mente andava a quella notte – anch’essa gelida – di venticinque anni prima, quando tremila suoi marinai erano <<>> a sud di Capo Matapan.”

 

Ed ecco dove quella “raccomandazione” ha condotto la mia vita:  l’imbarco su una delle navi  da battaglia più vicine all’avanzata del nemico e a quello che sembrava un infausto destino e non, per esempio, sulla corazzata “Roma”, nuova e potente, che se ne stava in una base navale molto più vicina a casa; forse non c’era posto per me. Peccato, mia Madre avrebbe trovato certamente il modo, prima dell’8 Settembre 1943, di farmi visita a La Spezia durante una “franchigia” domenicale, cosa che, invece, non le è stata più possibile dopo la mia partenza per Taranto. Ma dopo due anni di angoscia mi ha rivisto mentre, dopo l’8 Settembre 1943, non avrebbe più riavuto il suo unigenito che , con grande probabilità, sarebbe scomparso con tanti altri mentre la nave ammiraglia della nostra flotta si disintegrava, colpita da una bomba “speciale” mentre cercava di fuggire la vendetta tedesca.

Invece il “caso” mi ha consentito di passare come una salamandra attraverso il fuoco della guerra: e, cosa ancora più importante, ho potuto, pur nell’angoscia della separazione dai miei genitori, godere il mare e compiere un dignitoso servizio: la scorta ai convogli che rifornivano le truppe alleate nel loro lento risalire la nostra martoriata Penisola.

 

Ciò che ho descritto è solo uno dei casi della vita (in questo caso la mia) che sembrano determinati, in parte, dalla propria volontà. Ma il mistero resta.

 

Aprile 2010

 

 

 

giovedì 8 aprile 2010

Una “grande opera”: La storia infinita del Ponte sullo Stretto di Messina

Come tante altre vicende italiane anche questa viene regolarmente ripresentata ogni quarto di secolo all'attenzione dei cittadini e forma materia di acceso dibattito politico senza mai trovare una realizzazione.
Ritengo di poterne parlare, come si dice, con "cognizione di causa", perché, non un quarto di secolo fa ma addirittura nel 1955, sono stato responsabile di uno studio geofisico commissionato dalla Regione Siciliana alla organizzazione per cui lavoravo. L'indagine avrebbe dovuto condurre, in tempi brevi, alla definizione del progetto ed alla costruzione del ponte.

Ricordo che il mio innato pessimismo mi portava alla seguente, intima, considerazione: "un'opera di questa mole, tenuto conto delle condizioni al contorno, non è assolutamente prioritaria. Tuttavia, siccome per iniziare la fase di realizzazione bisognerà attendere almeno una diecina d'anni, facciamo pure lo studio: nel 1965 l'opera, forse, potrà essere considerata necessaria".

Ed io non ero neppure il primo ad occuparmene: nel 1942, cioè in piena guerra, quando già si profilava l'invasione e la sconfitta, l'ANAS aveva effettuato un'indagine sulle sponde dello Stretto i cui risultati sono, poi, andati dispersi. Ma il problema si discuteva in Parlamento fino dai tempi di Giolitti quando un deputato, non so bene di quale parte politica, esprimeva un giudizio negativo sul problema, dicendo che non gli sembrava conveniente un'opera del genere per "trasportare attraverso lo Stretto qualche cesta di arance".

Torniamo all'indagine geofisica del 1955. Il nostro studio si basava sul primo progetto preliminare che prevedeva la posa di due piloni sul fondo dello Stretto (per intenderci, come per il ponte del Golden Gate). Il quesito posto era sostanzialmente la determinazione dello spessore e della natura dei sedimenti e del "basamento cristallino" in corrispondenza sia delle sponde che dello Stretto stesso.

Malgrado le difficoltà rappresentate dalla complessa situazione geologica e, nelle profonde acque dello Stretto, dalle fortissime correnti e considerando anche i limiti delle tecnologie disponibili allora, i risultati hanno consentito di valutare chiaramente spessore e proprietà meccaniche delle formazioni geologiche. Queste ultime risultano molto scadenti fino a notevole profondità non solo per quanto riguarda i sedimenti ma anche il "basamento cristallino" che risulta fortemente alterato fino a parecchie centinaia di metri sotto il piano di campagna e sotto il fondo dello Stretto. I progetti successivi, a quanto pare, hanno abbandonato l'idea dei piloni nello Stretto, dove, oltre alle condizioni geotecniche sfavorevoli, la notevole profondità dei fondali (circa 150 metri) e le fortissime (e variabili) correnti renderebbero molto difficili i lavori.

Il progetto della campata unica, tuttavia, porta ad una gravissima conseguenza: come parecchi tecnici fanno osservare, la campata risulterebbe troppo lunga per consentire, in condizioni sempre sicure, l’ attraversamento ferroviario. Questo mi sembra un punto essenziale; non risolvere compiutamente il problema delle rotaie sarebbe veramente un argomento a favore dei contrari. D'altra parte la resistenza del lungo ponte sospeso risulterebbe minore nel caso di un grande evento sismico.

Bisogna dire tuttavia che i problemi tecnologici, se affrontati in modo corretto, sono ormai tutti (o quasi) superabili. Ciò che, invece, non sembra superabile è l'eterna e sempre acrimoniosa discussione di questioni che non vengono mai affrontate in modo serio, forse perché nessuno ha questa intenzione. E' possibile che i contendenti pensino di ricavare un qualche utile dal protrarsi della polemica.

Tornando al ponte, due "scuole di pensiero" si affrontano da più di un cinquantennio:

- la prima (contro) sostiene che il ponte, se costruito senza che si siano realizzate le necessarie "infrastrutture", rimarrà come un orrendo monumento allo spreco ed alla corruzione, e costituirà unicamente una grave offesa per l'ambiente.

- La seconda (i favorevoli) sostiene che questa "grande opera" innescherà la realizzazione di ciò che manca (le "infrastrutture") e darà una spinta alla modernizzazione del Sud.

E' certo che il rischio paventato dai contrari, visti i tanti precedenti italiani, è molto forte. Per lo meno occorrerebbe iniziare subito a lavorare sulle infrastrutture. L'aspirazione a realizzare "grandi opere" prima di sistemare decentemente l'esistente attraverso un migliore equilibrio delle risorse e dei servizi (vedi il problema dei trasporti su gomma, su rotaia e per mare) mi ricorda i vari "exploits" del ventennio, vantati come "realizzazioni del genio italico": l'aereo più veloce del mondo gli elettrotreni, i transatlantici, tutti i più veloci del mondo, punte isolate usate dal regime per "épater les bourgeois".

Malgrado tutto, però, il vecchio che sono io non nega che gli farebbe piacere attraversare lo Stretto in cinque minuti, comodamente seduto in un vagone ferroviario, guardando dall'alto Scilla, il lago di Ganzirri ed i piccoli pescherecci a caccia del pesce spada.

Mi consentano gli ambientalisti di non essere d'accordo con loro su di un punto: queste grandi opere non tolgono ma aggiungono bellezza al paesaggio. Come apparirebbe la stretta del Gard senza il bimillenario acquedotto di Augusto? E il Golden Gate, dove la bellezza dell'ambiente non è certo inferiore a quella dello Stretto di Messina, come sarebbe senza la maestosità del ponte?

A proposito del Ponte: “Tutti i pesci vennero a galla”……una storia di 55 anni fa.

Uno stretto braccio di mare. Le rive sono verdi ma le sovrastanti montagne appaiono brulle e sassose. Dalla parte dove sta calando il sole la costa è più bassa: c’è una serie quasi ininterrotta di paesi fino ad una punta ornata da un faro. Qui, a settentrione, le due rive si avvicinano tanto che sembra abbiano voglia di toccarsi ma più oltre si indovina il mare aperto e libero. A sud, invece, le sponde si allontanano sempre di più fino a lasciarsi.

Sulla riva occidentale la striscia di terra bassa è separata dalle colline da un paio di laghetti. Un bambino, armato di secchiello e paletta, gioca con la sabbia sulla riva. Ogni tanto si arresta per fissare il movimento delle acque: sono calme, trasparenti e di un colore invitante, verde-azzurro, non si vedono quelle onde e quei frangenti che, su altre spiagge, gli fanno tanta paura. Però c’è qualcosa di misterioso che, nello stesso tempo, attrae e incute timore: vicino alla riva si forma un gorgo che sembra poter risucchiare ogni cosa nel profondo. Papà, che è molto coraggioso, ieri gli ha mostrato cosa succede: si è tuffato in un punto e, senza muovere neppure un dito, è stato velocemente trasportato dal mare lungo la costa; è stato attento però a rimanere vicino a riva per non venire inghiottito dal gorgo. In quel momento, però, il bimbo ha visto un altro fenomeno: il mare si è messo a combattere contro se stesso; ribollendo e schiumando, la corrente ha invertito il corso e la barchetta di carta che lui aveva messo in acqua, è stata trascinata in direzione opposta, verso il lontano faro, ed è scomparsa.

Da migliaia di anni altri bambini hanno certo fatto simili esperienze. Anche oggi tanti bimbi giocano sulla spiaggia. Ogni tanto qualcuno di loro si avvicina allo “straniero” (così appare a loro a causa del suo vestire e di come si esprime) e scambia qualche parola: la conversazione è un po’ difficile perché i termini usati per indicare le stesse cose sono diverse. Ma i gesti suppliscono alle difficoltà linguistiche.

Ora accade un fatto nuovo: arriva un ragazzetto con nelle mani due grossi pesci e li offre allo “straniero”: sono proprio freschi, si agitano ancora. Ma subito dopo segue un altro ragazzo, anche lui con due pesci; indica il mare; la corrente sta portando verso la riva un gran numero di pesci: tutti galleggiano con la pancia in aria:

“Apelle, figlio di Apollo, fece una palla di pelle di pollo e tutti i pesci vennero a galla………”

Ma Apelle non c’entra. Nello stretto c’è grande agitazione, adesso: si vedono tante barche, quelle con l’albero dove monta l’uomo in vedetta per avvistare il pesce spada, che stanno circondando un natante più grosso. Cosa è successo? I ragazzotti dicono: “Scoppiarono nel mare e i pesci morti sono!”

Il bimbo non lo sa, ma la mamma sì: è colpa di papà che fa i botti in mare per studiare come è fatto il fondo; gli hanno dato l’incarico di vedere se la roccia sommersa è forte abbastanza per sostenere due enormi piloni di appoggio ad un grande ponte che colleghi le due rive, il ponte sognato da secoli che, unendo la grande isola al continente, porterà ricchezza e lavoro a tutti.

Ma i pescatori non hanno apprezzato la pesca miracolosa: protestano e minacciano vendetta bloccando la navicella degli investigatori con tutti i loro strani apparecchi.

La mamma ringrazia i bambini e dice “tenetevi questo buon pesce e portatelo a casa”. Prende il suo piccolo che vorrebbe restare e cerca di trascinarlo via: si sente anche lei oggetto di quella protesta e, in qualche modo, dalla parte dei responsabili di quella strage di innocenti. Il bimbo resiste e fa capricci; la madre lo prende a forza e se lo carica sulle spalle mentre gli strilli arrivano al cielo. Quando raggiunge la strada si arresta per riposare: l’assembramento delle barche si sta già rarefacendo. Evidentemente qualcosa o qualcuno ha rapidamente ed efficacemente operato per “sgonfiare” la protesta. Si vede già la motolancia della Capitaneria che riparte e mette la prua verso il porto, più a sud. Ritorna la calma e le ricerche riprendono.

La giovane mamma pensa: “Poveri pesci e poveri pescatori, tutti fanno sacrifici: ne varrà la pena ?”

E’ questa la domanda, che, soprattutto nel nostro Paese, si rivolgono ossessivamente tutte le persone oneste che si accingono ad affrontare un nuovo o vecchio ma irrisolto problema, piccolo o grande che sia.

venerdì 19 marzo 2010

L'Italia è un paese moderno

Ho preso un treno nuovo di “pacca”, di quelli a due piani, destinati al traffico dei “pendolari”, dove i writers hanno fatto appena in tempo a dare qualche pennellata. Spinto da un’ elementare necessità ho percorso tutto il treno, di sopra e di sotto, cercando un luogo appartato ma, certamente a causa della mia scarsa capacità di osservazione, non lo ho trovato. Invece, in tutti i vagoni ho ammirato un dispositivo meraviglioso: lettere elettroniche sfilavano continuamente davanti ai miei occhi per darmi un’informazione di importanza essenziale. La scritta diceva insistentemente: “Treno Alta Frequentazione”; le iniziali delle tre parole magiche erano tutte maiuscole. Il significato dell’annunzio, che mi ha accompagnato per tutta la durata del viaggio, mi ha lasciato perplesso e interdetto; non ho capito, difatti, se “alta frequentazione” si riferisse ai passeggeri (nel caso in questione la frequentazione era pressoché nulla perché il treno era vuoto) oppure alla frequenza dei treni di quel tipo. Immagino che la scritta debba servire per altri tipi di annunzi come “Prossima stazione X, fermata di 2 minuti”, oppure “Si annunzia un ritardo di cinque minuti”.
Non avendo trovato la “facility” nel treno, la ho cercata nella stazione dove sono sceso. La piccola costruzione dedicata al “riposo” (come dicono gli Anglosassoni) esiste ancora ma la porta è sprangata. Evidentemente la privatizzazione dei servizi ha ritenuto inutili le relative spese di manutenzione. Ho dovuto attendere di aver raggiunto il mio giardino: qui ho trovato pace e conforto.

Quante osservazioni di questo tipo capita di fare vivendo in questo Paese: ai più non fanno alcuna impressione; in genere si dice: cosa volete, siamo in Italia! Ad alcuni, che sono dotati (purtroppo per loro) di una certa sensibilità e che vorrebbero che il loro Paese fosse degno del suo passato (ormai lontano), provocano, a dir poco, fastidio. Fastidio per gli sprechi, per la trascuratezza. Quante cose si fanno, magari dopo discussioni interminabili, e poi restano inutilizzate per incuria. Quanti progetti di “grandi opere” servono solo ad assicurare potere politico e guadagni a ristretti gruppi, rimanendo per decenni nella fase di progetto o, peggio, vengono realizzate quando le condizioni al contorno sono cambiate e rimangono “cattedrali nel deserto” !

domenica 7 marzo 2010

VANGULI !

Primi di novembre del fausto anno 1943: Taranto, base navale della potente marina italiana, quella che, senza bisogno della spinta guerrafondaia fascista, sotto il governo del pacifista Giolitti era considerata la quinta o sesta marina da guerra del Mondo. Ora, dopo la vergognosa “débacle” nella guerra a fianco di Hitler, testa di sbarco delle composite truppe delle Nazioni Unite che si preparano a risalire, senza alcuna fretta, lo stivale martoriato.

Da pochi giorni è rientrato da Malta un gruppo di siluranti con la bandiera tricolore: è un frutto della “cobelligeranza”. L’ 8 Settembre le nostre navi (quelle che ci sono riuscite) hanno riparato a Malta e vi sono rimaste in stato di blando internamento. Poi, da nemico sconfitto, l’Italia è diventata, appunto, cobelligerante: termine inusitato, coniato non so da chi; sembra comunque molto adatto alla storia e al carattere del nostro Paese, abituato alle situazioni equivoche. Non alleato con pieni diritti e doveri, dunque, ma solo aggregato che fa, sì, la guerra insieme ma entro certi limiti. Per cui, ad esempio, le corazzate restano a Malta o nei Laghi Amari con equipaggi ridotti mentre il naviglio leggero (quello che può servire come scorta convogli), torna in Italia per co-belligerare.

Chi scrive, per sua grande fortuna, era tra quelli che rientravano; adesso si trattava di “cobelligerare” nel modo più dignitoso possibile per dare un sia pur piccolo contributo alla liberazione di quella parte del disgraziato Paese rimasta sotto i neri labari della barbarie. Quindi immediata domanda di reimbarco; questo è avvenuto solo dopo una quindicina di giorni dalla domanda; ho evitato così di vivere le grandi miserie della nostra terra in quel periodo svolgendo anche un compito utile alla liberazione ed alla ricostruzione del Paese.

In attesa del nuovo imbarco sono stato alloggiato in Taranto vecchia presso una famiglia modesta, di cui ricordo con simpatia e gratitudine la correttezza e la civiltà. Come compagno di stanza avevo un altro “aspirante” guardiamarina, sbarcato dalla corazzata gemella della mia; era un giuliano e si chiamava (lo ricordo perché di nome non comune) Lapo. Come me, quindi, tagliato fuori dalla famiglia di cui non conosceva la sorte. Chissà se al ritorno avrà avuto anche lui la grande fortuna di ritrovare i suoi salvi e liberi; forse ha dovuto affrontare le altre difficoltà che ha passato la sua terra.

Tra una visita e l’altra al Comando Marina per chiedere delle nostre domande d’imbarco, passeggiavamo per la città vecchia e nuova, passando sul noto ponte girevole. Soldataglie di tutti i colori si aggiravano per i vicoli e sul lungomare affollando i pochi caffè aperti. Siamo entrati in uno di questi e ci siamo seduti ad un tavolino in un angolo ordinando un “cappuccino” (il latte era di capra ed il caffè di origine molto dubbia).

Il locale, quasi vuoto quando eravamo entrati, si è riempito di colpo all’arrivo di un gruppo di vocianti soldati neo-zelandesi, evidentemente appena sbarcati e in attesa di iniziare la campagna italiana. Non capivamo nulla delle frasi che si scambiavano, un pò per l’ignoranza della lingua inglese ma anche a causa del particolare “slang”. Tutto pareva rimanere tranquillo quando uno degli alti e possenti militari, discendente, probabilmente, da quei passeggeri che “viaggiavano gratis sulle navi di Sua Maestà Britannica” dai suburbi di Londra alle isole dei Maori, si è accorto della nostra presenza e delle nostre uniformi. Queste, anche se non stirate in modo perfetto, erano decenti completi invernali blu: ma le stellette e le corone sui berretti poggiati sul tavolino (eh, sì, c’era ancora il Re sabaudo) ci denunziavano chiaramente come ex nemici. Il bianco signore dell’Oceano Pacifico ha incominciato a fissarci sempre più intensamente; ad un certo punto si è alzato indicandoci con un braccio accusatore e prorompendo in un chiaro e forte “VANGULI! “. Allora altri compagni d’arme si sono uniti al suo sdegno aggiungendo a “vanguli” la domanda “compris?”.

Evidentemente, durante le campagne in Africa settentrionale e in Sicilia le conoscenze linguistiche dei nostri guerrieri si erano estese agli idiomi latini se pur con qualche incertezza.

Non ci sentivamo affatto tranquilli mentre il coro accusatore aumentava di intensità. Lapo ha provato a rispondere in tono educato: “No, non compris” senza ottenere alcun effetto. Subito alla nostra destra c’era una porticina semiaperta; mentre i nostri co-compagni d’arme (come si dice?) iniziavano l’avanzata muniti di bottiglie accuratamente vuotate (ed i cui effetti erano certamente una componente non trascurabile dell’attacco) abbiamo, di colpo, rovesciato il tavolino col piano di marmo e, al riparo di questa trincea improvvisata, siamo scivolati dentro la porticina chiudendocela alle spalle. Poi, coraggiosamente, siamo usciti nel vicolo dietro la casa dopo di aver attraversato la cucina e di esserci scusati per l’irruzione con i frastornati proprietari: non ci risulta che questi abbiano subito danni da parte dei liberatori.

Fin qui l’episodio, del tutto irrilevante nel quadro tragico del tempo. Ma , a distanza di 67 anni, mi risuona ancora all’orecchio l’offesa patita. In questi tempi, poi, di continuo autolesionismo, i “vaffa” (versione nostrana di “vanguli”) si sono moltiplicati. Sono epiteti domestici ma contribuiscono ad alimentare la disistima dell’Italia in tutto il Pianeta.

Perché questa cattiva fama? E’ un discredito permanente o si è verificato solo in determinati periodi della nostra storia? Tutti i popoli hanno avuto tempi più o meno felici; d’altra parte stiamo vivendo un’epoca di decadenza di tutta la cosiddetta civiltà occidentale, di cui certamente facciamo parte essendone stati uno dei due soci fondatori nell’antichità e costruttore quasi esclusivo nel Medioevo e nel Rinascimento.

Quando abbiamo cominciato a ricevere collettivamente ingiurie del tipo “vanguli”? Ho già esaminato questo problema indicando che la fama di doppiezza dell’Italiano (non importa se cittadino della Repubblica Veneta o del Regno di Napoli) risale fino al Rinascimento. Però allora ci veniva riconosciuta quasi da tutti una superiorità creativa e culturale. Poi la creatività è progressivamente diminuita insieme con l’assenza dalla gara per le conquiste coloniali, il ritardo nella nascita dell’industria e l’aumento delle differenze tra regione e regione per quanto riguardava ricchezza, cultura, sviluppo di ogni tipo. Così si è giunti, nel secolo XIX, alla definizione di “Paese dei morti”. Il risveglio, cui è seguita l’unificazione della penisola, è stato molto celebrato ma ogni giorno che passa si rivela sempre più incompleto e pieno di incubi.

sabato 6 marzo 2010

Signori e Signori

Mister, Monsieur, Herr, Señor, Sir, Signore: questi attributi che precedono il cognome di qualunque uomo nelle principali lingue europee dovrebbero avere tutte lo stesso significato che, per i Romani, era “dominus”, cioè uno che dominava, che comandava, cui si doveva rispetto e obbedienza. “Mister” deriva da “Master”, “Monsieur” è uguale a Sir, “Señor” e a “Signore” con l’aggiunta più servile di “Mon” (che per i francesi è indispensabile), “Herr” viene da Hërre o da Hërro che significa sempre “signore”, padrone.

Una volta il titolo spettava solo a quelli che realmente comandavano e che, in tal modo, potevano nettamente distinguersi dal volgo.

Ciò accadeva anche nel nostro Paese che, anzi, era molto in ritardo rispetto agli altri. Ricordo che 140 anni dopo la rivoluzione francese, mia nonna si rivolgeva a chi non era vestito bene apostrofandolo con un “buon uomo”; d’ altra parte mi ha colpito, quando da ragazzo sono andato per la prima volta in Francia, sentir chiamare il cameriere “Monsieur” anziché “Garçon” come mi avevano insegnato.

Mentre negli altri Paesi Europei occidentali e negli USA “Mister” o equivalenti appellativi si generalizzavano a partire dall’inizio dello scorso secolo, in Italia il processo si complicava a causa, forse, del modo piuttosto artificioso con il quale si era raggiunta l’unità ed anche dei vari rivolgimenti.

Il fascismo che, nella sua propensione per il nero ci stava portando verso un avvenire funereo, badava, forse fortunatamente, più all’apparenza che alla sostanza. Verso la fine dell’avventura, quando aveva conquistato l’Impero e aveva conseguito, anche all’estero, fama di regime autoritario ma “costruttivo”, ha rivolto la sua attenzione a cose tragiche (come la persecuzione degli Ebrei) ed anche a futili argomenti. Tra questi, la trasformazione delle abitudini italiane nei rapporti umani: niente più stretta di mano ma solo “saluti fascisti” (anche nella corrispondenza, in cambio dei “distinti saluti”); sostituzione del “Lei” con il “Voi” e, fondamentale innovazione, l’abolizione assoluta del titolo di “Signore” a favore di “Camerata” (accompagnato dall’odore di caserma). Naturalmente, rivolgendosi al Capo supremo non sarebbe stato possible usare questo epiteto, a lui spettando l’esclusivo “Duce”.

“Camerata” veniva proposto, penso, in contrapposizione all’odiato “compagno” usato dai reprobi “rossi” senza riflettere che questi, fuori dal nostro Paese, si designavano come “comrade” o “kamerad”.

In Italia, però, è difficile far digerire in modo assoluto certe direttive; per cui, mentre nelle lettere ufficiali il “signore” era scomparso, si continuava ad usarlo nelle relazioni private, come segno di buona educazione. Anche in certe confraternite, come la Chiesa o la Marina, si è perseverato nel peccato: ricordo che a bordo delle (ancora) Regie Navi ci si è sempre rivolti agli ufficiali (tranne che al Comandante) premettendo al cognome il “Signor”.

Dopo la caduta del fascismo, la guerra di liberazione e la prima ricostruzione, la confusione, forse, è aumentata. Si disprezzavano gli “spagnolismi” senza sapere che quel popolo usa molto più di noi il titolo “Señor” ma, nello stesso tempo, questo appellativo cambiava gradualmente di significato, fino ad assumerne uno essenzialmente dispregiativo, almeno quando è seguito solo dal nome non accompagnato da altri titoli.

Mentre dire Mr. Bush o Mr. Blair od anche M. Chirac non suona alcuna offesa al presidente USA, al Primo Ministro britannico o al Presidente francese, quando in Italia ci si indirizza a personaggi di simile rango bisogna specificare “il Signor Presidente della Repubblica” oppure “ il Signor Presidente del Consiglio”. Dire semplicemente “Signor Prodi” oppure “Signor Berlusconi” suona quale grave offesa e dileggio nei confronti dei citati. Quando si ode alla radio o alla TV qualcuno che apostrofa un gruppo politico, economico o industriale con un “quei signori” ciò significa che li considera meritevoli della forca, se questa venisse riadottata.

D’altra parte, mi sembra che il significato spregiativo di “Signore” venga confermato dal fatto che gli indirizzi delle bollette o della pubblicità da qualche tempo sono compilati con l’inusitata formula:

“Gentile …….Nome e Cognome” (senza altri attributi).

RIMORSI - La zingarella

Il vagone della "mètro" (come dicono gli italiani) era pieno; come al solito, in piedi, seguivo le strategie migliori per garantire la minima interferenza con i miei simili e, nello stesso tempo, per dare loro il minimo fastidio. Di fermata in fermata effettuavo le mosse opportune per avvicinarmi alla porta più conveniente per la discesa. La gente parla poco, a Milano; la folla resta silenziosa tranne quando salgono comitive di tifosi che vanno alla partita, scolaresche in gita premio oppure, talvolta, strani gruppi di donne dell'Est europeo che si spostano da una stazione ferroviaria all'altra per raggiungere il luogo di lavoro. Parlano di più, non dico a Roma ma a Parigi o Madrid. Improvvisamente il silenzio viene rotto da una voce che, in un italiano, forse volutamente, stentato, chiede aiuto a nome di figli e mogli che hanno fame; per sottolineare la richiesta attacca un'improbabile canzone ad alto volume accompagnandosi con un'asmatica fisarmonica. Immediatamente la mia reazione di uomo d'ordine ("come si può consentire che, oltre ai graffitari e ai vandali, si debba sottostare a questi supplizi") mi fa voltare la testa verso il finestrino per non vedere il questuante che, ultimato il pezzo, passa con il cappello in mano e scende per cambiare vagone e ripetere tutta la scena.

Il nostro cervello è sempre in funzione e, soprattutto quando non è occupato in qualcosa di specifico, salta da un argomento all'altro con frequenza altissima, talvolta miscelando parecchi pensieri seza soffermarsi su alcuno. Forse, in circostanze simili le menti eccelse hanno la capacità di estrarre dal groviglio di temi che passano uno dietro l'altro più veloci di certi avvisi pubblicitari a lettere di fuoco, un pensiero che diventa fonte di ispirazione per creare opere somme. A me questo non succede ed il rumore di fondo resta tale fino a quando sopravviene la necessità di occuparsi di un argomento specifico.

Alla mia fermata, disceso senza problemi, ho intrapreso la salita alla superficie, osservando, come sempre, lo stato dei dispositivi tecnici (scale mobili e fisse, altoparlanti, servizi vari) e confrontandoli con quelli similari che conosco. Devo confessare che, pur proclamando la mia avversione per il trionfo della tecnologia, ammiro le "grandi opere" quando funzionano: nel mio intimo (ma non lo confesso) apprezzo di più il Golden Gate bridge, la Hauptbahnhof di Stoccarda o l'aeroporto O'Hara di Chicago che non la Basilica di S. Maria Maggiore.

Soddisfatto per non avere riscontrato gravi deficenze o sozzure, mi sono avviato per l'ultima scala (fissa) che porta all'emersione e ho guardato la luce del giorno che ne ornava la sommità. Una figuretta si stagliava contro il cielo. Era una bambina di 5 o 6 anni, infagottata in una giacchetta impermeabile e con un berrettuccio di lana in testa. Un braccino si propendeva verso chi saliva in un muto ma eloquente gesto. Nessuna madre o accompagnatore (o sfruttatore) era in vista. Intanto il segnale di attenzione ai problemi tecnici delle ferrovie sotterranee si era attenuato e il miscelatore aveva ricominciato il suo lavoro: il mio cervello si occupava nuovamente di tutto e di nulla.

Però, avvicinandomi alla bambina ho avuto un lampo di concentrazione che mi ha detto: "guarda, potrebbe essere la mia beneamata nipotina" per correggersi subito: "se io le do qualcosa chissà a chi gioverà". Uscendo dalla scala mi sono spostato dalla parte opposta e mi sono allontanato a passi rapidi mentre il miscelatore funzionava nuovamente in pieno. Dopo cento metri ho incontrato il solito barbone, seduto per terra e appoggiato con la schiena al muro di una casa. E' sempre lì, ad orario fisso e sparisce solo quando piove o nevica oppure durante la canicola di mezzo Agosto. Non chiede mai nulla, non stende la mano, forse medita? Ma su cosa? Anche il suo cervello funziona come il mio, chissà quale cocktail di pensieri si agita dentro la sua testa. Quando passo gli do qualcosa perché non chiede: mi ringrazia. Ma oggi funziona da trigger; un lampo: perché non mi sono fermato quando ho visto quella bambina che assomigliava a mia nipote? Non posso tornare a casa con questo peso!

Intanto cominciava a piovere; si faceva tardi, le luci si accendevano e la bruma cominciava a sfumare, togliendone l'ovvietà e la bruttezza, i contorni delle case, delle cose e delle persone. Torno indietro quasi di corsa: alla sommità della scala non c'è alcuna bambina. Scendo a precipizio le scale ed esploro ansioso il mezzanino; la folla che rientra dal lavoro si va ormai diradando, il bar è vuoto, alla rivendita dei giornali non c'è più nessuno. Con uno sforzo, vincendo la mia natura, chiedo al controllore dei tornelli se ha visto una bambina che chiedeva l'elemosina: "no, perché, le hanno rubato il portafoglio? Sa, ieri ci sono state molte denunce di borseggi; sono zingari che mandano avanti bambini addestrati. Sono bravissimi. Lei dovrebbe sporgere denuncia; non serve a nulla, ma……"

Risalgo nella via; ormai è buio; mi sento solo e vuoto di tutto fuorché di rimorsi.

Un rimorso per un atto non compiuto che solo a posteriori ho considerato giusto, meritevole di un minimo sacrificio, richiama una moltitudine di rimorsi: quelli per avere offeso altri esseri o per non aver speso una parola per consolare o per chiedere perdono. Peccati di omissione, spesso, come dicono i preti, non meno gravi di altri.

E sì, quando si ripresenta questa torma di mostricciattoli che mordono la coscienza come quelli dei quadri di Brueghel, tutto quel poco di buono che si crede di aver fatto nella vita diventa meschino e inutile. C'é solo da augurarsi che il rumore di fondo riprenda e che il miscelatore cancelli questo molesto e insistente segnale.

giovedì 25 febbraio 2010

Autoritrattto

Chi sono io? Chi sono per me stesso, chi sono per gli altri? Chi sono per me, quello che vedo nello specchio quando mi rado, di cui mi compiaccio perché riconosco ancora il ragazzo di 50 o di 60 anni fa, oppure l’immagine sbiadita di un vec­chio curvo e dal passo incerto che scopro per caso, riflessa da una vetrina? La seconda immagine, più veritiera della prima perché non preparata dalla fanta­sia, è certo più vicina a quella che vedono gli altri ma ne rimane an­cora molto distante, e non solamente a causa della specularità. Ciò che io vedo è sempre le­gato, in modo imponderabile, alla mia psiche, alla storia della mia vita, alle mutevoli sensazioni che ho in me e che gli altri non possono conoscere e che io stesso non posso dominare.