IL CASO E LA VITA: un esempio
Non è mia intenzione di entrare (e neppure sfiorare) gli argomenti filosofici legati al problema del caso nella vita dell’uomo o dissertare sulla disputa tra determinismmo e “accidentalismo”.
Vorrei solo descrivere alcuni eventi che hanno segnato la mia lunga vita: quali possono essere considerati “fortuiti” e quali, invece, sono stati, se non causati direttamente, almeno influenzati dalla mia volontà. Naturalmente segue subito la domanda: “chi o cosa ha influenzato la mia volontà?”
Sono stato testimonio (sia pure parziale) di un periodo della storia umana piuttosto lungo: se consideriamo a circa 15 anni l’inizio dell’esistenza cosciente di ogni individuo (cioè da quando si è in grado di giudicare il mondo intorno a se), si può dire che ho testimoniato per più di 70 anni di ciò che accadeva intorno a me. In circa 3000 anni di storia periodi di questa lunghezza sono stati ricchi di avvenimenti considerati determinanti per la successiva evoluzione del genere umano.
Sono nato quando era appena conclusa l’inutile carneficina della prima guerra mondiale. Ho trascorso la fanciullezza e la prima giovinezza in un paese governato dalla dittatura, prima osannata dai più, poi, quando ci ha portato alla guerra e alla rovina, maledetta. Sono passato attraverso la tragedia senza ferirmi né nel corpo né nello spirito e, quando ne sono uscito, ho vissuto le speranze della riconquistata libertà e la fede nel progresso morale e civile. Poi le disillusioni, i pericoli dei ritorni, il vacillare della fede nel miglioramento della specie umana.
E’ questo il “normale” avvicendarsi delle sensazioni che provano i miei simili di ogni generazione durante la loro vita (almeno quelli che possiedono una coscienza)?
Le stesse speranze e le stesse disillusioni per un romano vissuto al tempo di Cesare, per un milanese al tempo di Napoleone e per un italiano (forse anche per un europeo) che è stato testimonio di quasi tutto il secolo delle grandi guerre, delle dittature e del trionfo della tecnica e che ora assiste a pericolosi ritorni? E’ ben vero che l’assetto del Mondo sta cambiando, che l’iniziativa sta passando in nuove mani, che i popoli che dormivano soffrendo e che non contavano si sono svegliati; ma non sappiamo se, quando avranno il governo dell’Umanità, il loro comportamento sarà più saggio di quello dei “bianchi” fino ad oggi dominatori.
Ma non oso azzardare previsioni. Qui vorrei solo tentare di descrivere, attraverso il racconto di una parte della mia vita, come atti volontari di un individuo (quanto volontari e quanto condizionati?) abbiano potuto determinarne l’esistennza.
Per ora restringerò la mia analisi al periodo giovanile, quello vissuto durante la seconda conflagrazione mondiale.
- Il conflitto della coscienza
Prima la speranza di soluzioni pacifiche (Monaco). Ero un ragazzo ma cosciente della ipoteca che la storia stava ponendo sulla mia stessa esistenza. Provavo vergogna per la mia condizione di appartenente ad un paese governato da una dittatura che proclamava un credo così nettamente in contrasto con l’educazione ricevuta dalla famiglia, dalle letture ed anche, almeno in parte, dalla scuola. Sì, anche la scuola: almeno quella che ho frequentato io era sufficientemente libera e aperta: le iniziative del Regime scivolavano senza penetrare: erano ritenute, dalla maggioranza degli insegnanti e dei discenti, delle seccature senza conseguenze sullo sviluppo morale delle nuove generazioni. Però due fatti avevano colpito (in modo molto diversificato) le coscienze: l’alleanza con Hitler e l’imitazione del Nazismo (solo un poco edulcorata) nella persecuzione degli Ebrei. Non bastava esprimere simpatia e solidarietà agli amici che si trovavano in quella situazione: la coscienza diceva che eravamo e restavamo dalla parte dei persecutori.
Intanto io uscivo dalla scuola “umanistica” ed entravo all’Università. Malgrado i suggerimenti del mio più apprezzato insegnante, sceglievo, come tanti quell’anno, una facoltà tecnica. Qui si parlava poco di politica ed anche di problemi politico-filosofici. Chi e che cosa hanno determinato quella scelta, pure fondamentale per la mia vita? Vediamone le conseguenze immediate.
Mentre io risolvevo il mio conflitto senza convinzione scegliendo la tecnologia invece della filosofia (intesa in senso generale) Hitler invadeva la Polonia e la guerra aveva inizio. Ma il nostro Paese, sotto l’illuminata guida dell’ Uomo del destino, ne rimaneva temporaneamente fuori.
Malgrado l’inusitata (ed equivoca) formula della “non belligeranza” sentivo l’avvicinarsi del baratro. Come comportarsi? La mia avversione al fascismo avrebbe giustificato di nascondersi, come facevano molti che, invece, manifestavano “fede incrollabile nei luminosi destini della Patria”.
Ho già descritto il mio stato d’animo di quel periodo; non auguro a nessun giovane di oggi di doversi confrontare con simili problemi di coscienza.
Intanto il periodo di maggior vergogna per il nostro Paese si avvicinava: tutta l’Europa è sotto il giogo del mostro nazista: dobbiamo affrettarci, altrimenti non ci resteranno che degli ossi da rosicchiare; entriamo in guerra e, per acquistare qualche diritto di compartecipazione, ce la prendiamo con la piccola Grecia; ahi! E’ subito chiaro che lo spirito bellico e la preparazione erano aria fritta. Sono i figli del popolo che pagano le vuote spacconate del Duce. E gli studenti? Perché devono restare a casa? Diamo un esempio: chiamiamo i più giovani, quelli nati nel ’21, sospendendo il loro diritto a rinviare il servizio militare. Ecco, qui entra in giuoco un mio atto volontario, la scelta della facoltà compiuta l’anno prima. Da sempre avevo desiderato di compiere il servizio militare obbligatorio in Marina. All’Accademia Navale di Livorno erano previsti dei corsi per aspiranti ufficiali di complemento riservati agli studenti universitari iscritti al terzultimo anno di laurea, cioè al secondo anno per i corsi di quattro anni, come lettere o legge; io frequentavo il secondo anno del corso di laurea in Ingegneria, che era di cinque anni ed ero nella leva di terra. Quindi non avevo questa possibilità quando Mussolini, per dare un esempio, ha chiamato gli studenti più giovani, quelli del ’21, appunto. Se fossi stato iscritto a legge o filosofia sarei forse andato a Livorno già nel 1941 e imbarcato nel 1942 anziché nel 1943. Ecco una conseguenza di una decisione apparentemente libera.
Poi la “carriera” nell’Esercito: recluta, caporale, sergente. Nel 1942 ero pronto per il rapido corso di allievo ufficiale e per una destinazione in qualche distretto metropolitano oppure in un paese occupato (Croazia, Grecia) oppure al fronte Ucraino, oppure in Africa settentrionale, oppure….
Ma la domanda di trasferimento nella leva di mare era ancora operativa e c’era qualcuno che la stava seguendo.
L’ammiraglio
Ritornavo in caserma dopo una breve licenza a casa (erano iniziati i bombardamenti e la gente cominciava a sfollare ma Mussolini annunziava il prossimo arrivo del “bello”). Entrando nella camerata dei sottufficiali non ho più trovato la mia branda: il caporalmaggiore di servizio mi ha subito informato: “Sergente, voi siete stato trasferito!”.
In effetti era giunta la comunicazione del mio trasferimento alla leva di mare per l’ammissione, previa visita medica e attitudinale, ad un corso rapido per allievi ufficiali di complemento all’Accademia Navale di Livorno.
A chi dovevo questo inaspettato e, a me, gradito provvedimento? Non ricordavo neppure che molto tempo prima avevo angustiato mio Padre chiedendogli se potesse “raccomandarmi” presso qualche suo amico per farmi passare, in modo piuttosto anomalo, in Marina. Credevo che la mia richiesta non avesse avuto seguito; invece, per farmi piacere e con la sofferta approvazione di mia Madre, una lettera era stata inviata ad un amico di famiglia che io non conoscevo. Non ho mai saputo quale ne fosse il tenore: sono sicuro, tuttavia, che vi si diceva che io amavo il mare e che volevo un imbarco.
Il destinatario della lettera era l’Ammiraglio comandante della flotta. Malgrado la tragedia incombente, il dolore per le sconfitte subite e per la perdita delle sue navi e di tanti suoi marinai, e, probabilmente, l’avversione al Regime, l’Ammiraglio Angelo Jachino si è occupato anche del mio caso. Forse lo ha fatto volentieri, forse ha apprezzato che la richiesta fosse per esporsi e non per nascondersi.
E’ certo che quella “raccomandazione” mi ha consentito di passare attraverso uno dei periodi più bui nella storia del nostro Paese in modo dignitoso e compiendo anche un servizio utile alla causa della libertà.
Non ho mai incontrato il mio benefattore e non ho avuto neppure notizia della sua scomparsa. Solo molto tempo dopo ho letto il ricordo scritto da Dino Buzzati, in occasione del varo del lanciamissili “Vittorio Veneto”, nel 1966:
“L’ammiraglio se ne stava silenzioso. I suoi occhi azzurri, gelidi, guardavano lontano, oltre lo scafo in bilico sullo scalo, al di là delle bandiere. Forse per il vento gelido che tirava giù dritto dalle montagne dell’Irpinia, ma più probabilmente a causa dei ricordi, di tanto in tanto qualcosa di lucido gli passava nello sguardo. In quel momento la sua mente andava a quella notte – anch’essa gelida – di venticinque anni prima, quando tremila suoi marinai erano <<>> a sud di Capo Matapan.”
Ed ecco dove quella “raccomandazione” ha condotto la mia vita: l’imbarco su una delle navi da battaglia più vicine all’avanzata del nemico e a quello che sembrava un infausto destino e non, per esempio, sulla corazzata “Roma”, nuova e potente, che se ne stava in una base navale molto più vicina a casa; forse non c’era posto per me. Peccato, mia Madre avrebbe trovato certamente il modo, prima dell’8 Settembre 1943, di farmi visita a La Spezia durante una “franchigia” domenicale, cosa che, invece, non le è stata più possibile dopo la mia partenza per Taranto. Ma dopo due anni di angoscia mi ha rivisto mentre, dopo l’8 Settembre 1943, non avrebbe più riavuto il suo unigenito che , con grande probabilità, sarebbe scomparso con tanti altri mentre la nave ammiraglia della nostra flotta si disintegrava, colpita da una bomba “speciale” mentre cercava di fuggire la vendetta tedesca.
Invece il “caso” mi ha consentito di passare come una salamandra attraverso il fuoco della guerra: e, cosa ancora più importante, ho potuto, pur nell’angoscia della separazione dai miei genitori, godere il mare e compiere un dignitoso servizio: la scorta ai convogli che rifornivano le truppe alleate nel loro lento risalire la nostra martoriata Penisola.
Ciò che ho descritto è solo uno dei casi della vita (in questo caso la mia) che sembrano determinati, in parte, dalla propria volontà. Ma il mistero resta.
Aprile 2010